Cori offensivi e il razzismo sporca lo sport: intervista a Nicola Sbetti, professore dell’Università di Bologna

Si è beccata 2mila euro di multa la società di pallacanestro Virtus Bologna per cori razzisti di una parte della tifoseria. L’episodio è avvenuto durante l’incontro della Serie A di domenica scorsa tra la squadra bianconera e l’ Alma Trieste: nel corso della partita si sono uditi i cori ‘Slavi’ e ‘Zingari’ indirizzati da un gruppo bolognese ai sostenitori triestini. Non è certo la prima volta che lo sport italiano viene macchiato da messaggi di odio razziale indirizzati ai tifosi o agli atleti. Queste dinamiche tra sport, politica e società le conosce bene Nicola Sbetti, professore di Storia dell’educazione fisica e dello sport all’Università di Bologna.  

Professore, il fenomeno non riguarda solo il calcio. Cosa succede negli stadi e nei palazzetti? 

«Il basket è comunque il secondo sport italiano e il palazzetto non è diverso dallo stadio: laddove ci sono determinate folle emergono le stesse dinamiche. Il problema vero però è culturale. Il razzismo non dovrebbe solo stare fuori dagli stadi e dai palazzetti, ma non dovrebbe proprio esistere nella nostra società. Purtroppo non è così. Poi è chiaro che, data la loro visibilità, quando ciò avviene nel calcio o nella pallacanestro l’indignazione è maggiore, anche perché stride con l’idea – autoperpetuata dalle stesse istituzioni sportive – che lo sport di per sé sia inclusivo. Il che peraltro è tutto da dimostrare visto che l’accesso allo sport per un rifugiato o per un rom è molto più complesso».  

In seguito ai cori razzisti verso Kalidou Koulibaly, giocatore senegalese del Napoli è stato permesso all’Inter di far entrare solo i bambini sugli spalti. In una campagna pubblicitaria l’Inter ha dato un altro significato alla parola “Buu”, che è stata trasformata in “Brothers Universally United”. Sono sufficienti azioni del genere? 

«Il problema del razzismo nello sport esiste da tempo: secondo me la Federazione italiana gioco calcio (Figc) farebbe bene ad avvalersi del supporto di uno come Mauro Valeri, sociologo e responsabile dal 2005 dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio. Quello che ha fatto l’Inter è un passo importante: anche se è un’operazione di marketing, c’è una forte presa di distanza nei confronti di una parte della tifoseria. Si manda un messaggio positivo. Come quello dato da Carlo Ancelotti, allenatore con esperienza all’estero, che ha rilanciato l’idea che si possa sospendere una partita per insulti razzisti».  

Pensiamo a Peter Norman, l’australiano bianco che salì sul podio con Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La sua fu una presa di posizione forte (sabato, alle 19, al cinema Galliera verrà proiettato “Il saluto”, un film che affronta l’argomento). Quanto ha contato il suo gesto nella lotta al razzismo? 

«Norman non aveva nulla a che fare con la protesta portata avanti solo dagli afroamericani. Nel film si vede chiaramente. Ma volle comunque partecipare indossando la spilla dell’Olympic project for human rights e ne pagherà personalmente il prezzo. Proprio perché non era affatto dovuto, il suo fu un gesto importante».  

Nel 2016 un giocatore di football americano, Colin Kaepernick, è diventato famoso per le sue proteste simboliche contro la violenza subita dagli afroamericani per mano della polizia statunitense. È auspicabile “un fenomeno Kaepernick” in Italia 

«Intanto va considerato che il gesto politico di Kaepernick è una risposta alla politicizzazione fatta dalle stesse istituzioni sportive con l’esecuzione dell’inno nazionale. In Italia, anche dal punto di vista mediatico, è ancora molto forte l‘idea che lo sport debba essere separato dalla politica. A me viene in mente il gesto contro l’omofobia dell’ex centrocamposta del Caglieri Daniele Dessena: che indossò dei lacci arcobaleno. Un bel gesto per cui si è preso una discreta dose di insulti sui social. Peccato che i calciatori di Milan e Juve in occasione della Supercoppa in Arabia Saudita non abbiano riproposto il baffo rosso sul volto contro la violenza sulle donne. Si sarebbe creato un bel cortocircuito mediatico».

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