Lotta ai tumori, individuate dall’Università di Bologna nuove molecole che possono uccidere le cellule tumorali

Individuati per la prima volta composti chimici che possono uccidere le cellule tumorali stimolando nel contempo la risposta del sistema immunitario contro la malattia. La scoperta è di un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna e lo studio, finanziato con un contributo dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), è stato guidato dal professor Giovanni Capranico del dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Alma Mater.

Al centro della ricerca c’è il ruolo chiave di strutture non canoniche del DNA note come “quartetti di guanine” (G4): una tipologia di danno genetico che è in grado di attivare i meccanismi di difesa dell’organismo.   

«Lo studio è partito dall’analisi del meccanismo molecolare di alcuni composti che interagiscono con i quartetti di guanine, uno dei quali è stato sintetizzato proprio all’Università di Bologna, nei laboratori del nostro Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dalla dottoressa Rita Morigi», ha spiegato il professor Capranico 

L’azione di questi composti è particolarmente rilevante perché agisce allo stesso tempo su due fronti: da un lato provoca la morte delle cellule tumorali e dall’altro attiva i meccanismi di difesa dell’organismo stimolando la risposta immunitaria contro la malattia.  «Queste molecole sono in grado di stabilizzare i G4 e anche altre strutture non canoniche del DNA all’interno delle cellule tumorali: un fenomeno che provoca gravi disfunzioni nell’attività del genoma», ha dichiarato Capranico.  

Un risultato che apre la strada a nuove modalità di trattamento dei tumori «ma – ha continuato il professore –  la ricerca deve continuare perché non abbiamo ancora la molecola giusta, adeguata per il trattamento di pazienti oncologici»,  

La ricerca è stata condotta da Alessio De Magis, Stefano Manzo, Marco Russo, Jessica Marinello e Rita Morigi. Ha collaborato, inoltre, Olivier Sordet dell’Università di Tolosa (Francia). I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica PNAS, aprono, dunque, la strada a nuove modalità di trattamento.

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