Tra i numerosi reperti e antichità che popolano il Museo Civico Medievale di Palazzo Ghisilardi a Bologna, poco famosa è un’epigrafe, risalente almeno al XVI secolo, conosciuta come “Pietra di Bologna”. Si tratta di una copia il cui originale si trovava su un muro della chiesa dei santi Pietro e Paolo, all’interno del complesso di Santa Maria di Casaralta. Oggi stabilimento militare, il complesso fu eretto nel XIII secolo e appartenne alla famiglia Volta. In particolare, funse da sede per l’Ordine dei frati Gaudenti, che lasciarono in eredità alla città uno degli enigmi più misteriosi della storia bolognese: un’iscrizione, andata perduta nel 1885 in seguito a un sisma, di cui per fortuna erano state già realizzate diverse copie, come quella oggi custodita nel Museo Civico.

Nel 1550 il complesso di Casaralta fu affidato alle cure di Achille Volta, che lo restaurò e lo abbellì con mascheroni di pietra, dipinti e bassorilievi. Fu forse in questo clima ispirato dal mistero e dall’esoterismo e a cavallo tra l’alchimia del Medioevo e le scoperte scientifiche dell’Era Moderna che venne composto il testo inciso sulla Pietra di Bologna.

L’iscrizione

L’iscrizione segue il modello di un epitaffio funebre, ma risulta così occulta da far pensare che ogni termine sia in realtà un simbolo, una metafora, un codice da decifrare. Nel testo, scritto in latino, Lucio Agatho Priscius ricorda una donna, Aelia Laelia Crispis:

«D.M.

Aelia Laelia Crispis

né uomo, né donna, né androgino

né bambina, né giovane, né vecchia

né casta, né meretrice, né pudica

ma tutto questo insieme.

Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno,

ma da tutte queste cose insieme.

Né in cielo, né nell’acqua, né in terra,

ma ovunque giace,

Lucio Agatho Priscius

né marito, né amante, né parente,

né triste, né lieto, né piangente,

questa né mole, né piramide, né sepoltura,

ma tutto questo insieme

sa e non sa a chi è dedicato.»

L’interpretazione

Si pensa che l’originale presentasse tre versi in più, che non vennero trascritti nella copia:

«Questo è un sepolcro che non contiene alcuna salma

Questa è una salma non contenuta in alcun sepolcro

ma la salma e il sepolcro sono la stessa cosa.»

Il significato non è certo immediatamente comprensibile e non risulta chiaro nemmeno a seguito dei numerosi tentativi di interpretazione proposti da diversi studiosi nel corso del tempo. Secondo Richard White, gli ultimi versi non trascritti sarebbero stati tradotti da un antico epigramma greco attribuito ad Agatia lo Scolastico. White identificava la misteriosa Aelia Laelia Crispis con Niobe, un personaggio della mitologia ellenica. Altri credevano si potesse trattare di un’amadriade o addirittura dell’acqua piovana. L’interpretazione più quotata per un lungo periodo restò però quella di ispirazione alchemica: l’argomento funerario sarebbe solo un espediente per seminare indizi capaci di condurre alla chimera dell’alchimia, la pietra filosofale. La sua sintesi è descritta partendo dalla materia prima, appunto Aelia Laelia Crispis, che viene elaborata e trasformata attraverso i termini che si susseguono in una catena di contrari e negazioni. Alcuni storici, tra cui Carlo Pancaldi, hanno sostenuto questa versione affermando che i Gaudenti, autori dell’iscrizione, sarebbero stati esponenti di una setta esoterica.

La pietra filosofale

In effetti una “pietra filosofale” nei dintorni di Bologna è stata trovata davvero. Le prime notizie risalgono all’inizio del XVII secolo, quando l’alchimista dilettante Vincenzo Casciarolo recuperò ai piedi del Monte Paderno, sui colli bolognesi, una pietra fosforescente che venne appunto denominata “Pietra di Bologna”. La proprietà di trattenere e rimandare la luce era già ben conosciuta, tanto che compare anche negli scritti di Plinio il Vecchio, ma attirò comunque l’attenzione degli scienziati. Una descrizione dettagliata del materiale è fornita da Pietro Poterio nella sua Pharmacopea Spagyryca, datata 1622, nella quale la scoperta è attribuita a Scipio Bagatello, famoso alchimista bolognese. Il merito del ritrovamento venne riconosciuto a Casciarolo solo da Fortunio Liceti, che, proponendo si trattasse di materiale lunare, si servì della Pietra per contestare la teoria di Galileo Galilei che la luna non emettesse luce propria. Altri studiosi proposero che il materiale si comportasse come una calamita per la luce e non mancò l’ipotesi che si trattasse di un materiale dalle proprietà magiche.

Seppure il vero significato dell’iscrizione rimanga tuttora misterioso e in molti casi l’esistenza stessa di questa pietra non sia conosciuta nemmeno dai bolognesi, la fama che essa assunse fino al Settecento portò il letterato Emanuele Tesauro ad affermare che la pietra sarebbe bastata da sola alla fama di Bologna”, e lo storiografo Serafino Calindri a sostenere che «celebre ed insigne sarebbe stata Bologna, se altro ancora non avesse avuto e contenuto in sé stessa, che questa enigmatica lapide».

di Clarice Agostini

un articolo a cura di Giovani Reporter

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