Amo Bologna. […] L’amo per gli amori e i dolori, dei quali essa, la nobile città, mi serba i ricordi nelle sue contrade, mi serba la religione nella sua Certosa.” – Giosuè Carducci, 10 giugno 1888

Fuori alla Certosa di Bologna

Delia, a voi zefiro spira dal colle pio de la Guardia

che incoronato scende da l’Apennino al piano,

v’agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti

giù con le nere anella per la superba fronte.

Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando

gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,

udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),

udite giù sotterra ciò che dicono i morti.

(link alla poesia completa)

Amore ballerino

Siamo a metà agosto del 1879, il poeta si reca al cimitero della Certosa, ma l’occasione della visita diventa subito un pretesto per rivolgersi alla sua Musa ispiratrice, Adele Bergamini, presente al suo fianco. All’epoca sapeva che il loro rapporto, nonostante si sia trattato di una relazione per lo più epistolare, sarebbe durato ancora a lungo. Non lo sapeva ancora. Nel frattempo, quel 15 agosto 1879, tutto questo era lontano, il futuro ancora coperto da nubi nere e Adele vicina, troppo vicina.

Il vento avvolge la figura di Delia – il nome poetico che le dà – che come una dea greca risplende tra i raggi del sole e allo stesso tempo come una donna normale si sistema i capelli scompigliati dal vento; e “in vano promette Amore” alla stregua di una Beatrice bellissima e dannata di stilnovistica memoria. Il colle di San Luca, all’orizzonte, viene descritto come “pio”, in quanto sede di un luogo sacro e “coronato”, dal grandioso portico che scende – letteralmente – dal monte alla pianura e che si srotola fino a Porta Saragozza.

In mezzo all’amore, in un sofisticato gioco di antinomie, Carducci sovrappone diversi piani narrativi, ci porta tra le ombre di un cimitero il giorno che più di tutti dovrebbe rappresentare il calore dell’estate – ferragosto, contrappone la morte alla vita, il caldo al freddo, il bianco del marmo al rosso della fiamma. Come per sottolineare che quella giornata sarebbe stato diversa.

Il destino di chi visse per amare

Nella poesia e di conseguenza nel mondo di Giosuè Carducci emergono tante, troppe donne. Elvira, Dafne, Carolina, Adele, Silvia, Annie… I loro nomi si sovrappongono e si confondono, e ci restituiscono la straordinaria immagine dell’animo tormentato di un uomo che non riuscì mai a trovare una relazione davvero stabile.

Il meraviglioso epistolario intrattenuto per circa sedici anni con Adele-Delia (dal marzo del 1877 al maggio del 1893), come le loro anime, anche dopo la morte è stato diviso: le lettere del grande poeta bolognese si trovano a Roma, città natale della donna, nella Biblioteca Nazionale Centrale; mentre le missive inviate da Delia sono conservate a Casa Carducci, al numero 5 dell’omonima piazza, non lontana dal centro di Bologna. I quattrocento chilometri che dividono il loro amore sono una bella rappresentazione della distanza che c’è sempre stata tra i due amanti.

E Carducci, ormai cinquantenne, in una solitaria sera del 1882, il 27 gennaio per la precisione, scrive ad Adele “Come è bello in vetta ai luminosi colli vuotar bicchieri di vino sotto il grande riso del sole presso una bella signora fra giovani scherzanti e motteggianti”. È la maschera di un uomo malinconico che ripensa alla sua vita intera e ritorna a dieci anni prima, osservando dal tavolino del Caffè dei Servi dove è seduto il viavai serale di Strada Maggiore, lamentandosi del rumore, fumando il sigaro e ricordando i morti della Certosa, come in attesa di raggiungerli. “Beviamo del Cognac, ancora del Cognac”. Cara Adele.

di Davide Lamandini

un articolo di Giovani Reporter

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