Bologna dell’acqua, della seta e della canapa: una storia ancora viva

Ci si può ricordare con divertimento quando, nelle uscite scolastiche in giro per Bologna, la professoressa di storia spiegò in che modo i ganci infissi nel muro di Palazzo Pepoli Vecchio servissero ai cavalieri per legare le cavalcature. Forse l’ingenuità e la poca dimestichezza con la storia cittadina portarono quella prof a formulare un giudizio del genere – e del resto, come darle torto? Si può sfidare chiunque a pensare che, fino a pochi secoli fa, la maggior parte delle attuali strade di Bologna erano canali e che i ganci di Palazzo Pepoli, lungi dall’affacciarsi su una strada, servivano bensì a legare le imbarcazioni.

L’acquedotto antico

In verità il rapporto di Bologna con le vie d’acqua iniziò molto prima dell’età medievale, e per la precisione sotto il principato di Augusto, quando venne avviata una poderosa campagna di opere pubbliche che avrebbe portato alla realizzazione del primo acquedotto: si tratta di un’opera fondamentale perché con essa venne modificato l’approvvigionamento idrico della città, che fino ad allora si era rifornita attraverso pozzi e cisterne. Si è a lungo pensato che questo condotto di età romana partisse dal fiume Reno, ma dai rilevamenti effettuati si è scoperto che quell’acqua era troppo calcarea. I Romani avevano deciso di attingere dal fiume Setta, realizzando un cunicolo lungo oltre venti chilometri che arrivava in prossimità dell’attuale incrocio tra via Farini e via D’Azeglio. Da lì, tramite vasche di raccolta e decantazione, l’acqua era distribuita nella città.

Si calcola che la portata dell’acquedotto fosse di circa 6.000 metri cubi d’acqua al giorno che, divisi tra gli abitanti (20.000 nel periodo di massimo splendore), portava a 300 litri pro capite la disponibilità giornaliera di acqua. Quando la manutenzione praticata dai questori e dai villici all’acquedotto cessò, a causa della caduta dell’Impero, cessò anche il suo utilizzo. Soltanto nel 1881, con la riapertura delle antiche condutture a opera dell’ingegnere Zannoni, i bolognesi ebbero nuovamente a disposizione le stesse quantità d’acqua di cui godevano i loro concittadini di 2.000 anni prima.

I canali dell’età medievale

Finora si è parlato dell’utilizzo di sola acqua potabile. Bisogna però dire, a onor del vero, che la maggior parte dei canali che scorrono a Bologna ha piuttosto giocato un ruolo fondamentale nell’economia della città. Queste opere, in grandissima parte di età basso-medievale, permettevano un rapido collegamento fluviale al Po, come il Canale del Navile, e consentivano il funzionamento di numerosi opifici – è questo il caso del Canale Cavaticcio e di quello delle Moline. Proprio questi ultimi venivano sfruttati principalmente per la lavorazione di canapa e seta, le due risorse su cui il Comune bolognese costruì la propria fortuna e la propria ricchezza. Per dare un’idea della potenza economica che Bologna raggiunse tra Trecento e Cinquecento, basti dire che la seta bolognese, la cui lavorazione coinvolgeva circa metà dell’economia cittadina, era fra i prodotti più pregiati – e costosi – d’Europa.

I nomi delle strade

Durante del XVII secolo morì l’Italia artigianale e proto-industriale, e con essa pure la nostra città. Le cifre parlano chiaro: nel Seicento le botteghe dei Gargiolari ( lavoratori di canapa) passarono da 224 a 48; i filatoi della seta da 300 si ridussero a 75. Bologna, da città proto-industriale e artigianale, divenne agricola e rimase in questa condizione sino al secondo dopoguerra. Le tracce dell’antica ricchezza, però, sopravvivono nei nomi delle strade: via Val d’Aposa, via del Porto, via Avesella, e ancora via Altaseta e Via de’ Tessitori (ma è un caso particolare), tutti questi odonimi tramandano il ricordo della città nei tempi del suo splendore. Sarebbe opportuno che imparassimo a ricordare meglio la nostra storia per non diventare insensibili alle tracce della storia che racchiude un semplice nome, un vecchio caseggiato o un gancio. Una storia che, nonostante il passare del tempo, è ancora viva, nel cuore di Bologna.

di Francesco Faccioli

un articolo a cura di Giovani Reporter

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